INCIPIT|Pioggia d’estate

Ahmed al-Qarmalawi ci porta al Cairo, fra i vicoli di sapore mamelucco e il traffico di una megalopoli cosmopolita. 

“Pioggia d’estate” è un romanzo che esplora il cuore dell’attuale crisi dei giovani arabi, divisi tra fondamentalismo e voglia di modernità. Yusef, Zayed, Rahma, Zena, il liutaio Obaid, lo Shiekh Ruslan e lo Sheikh al-Mosuli, suonano la loro musica, affrontando l’impatto che i tempi in continua evoluzione hanno sull’arte, consapevoli della necessità di proteggere e preservare le loro tradizioni. E suonano all’interno del Wikala, luogo di preghiera, musica e meditazione.  La musica diventa filo di congiunzione tra passato e presente in un racconto che si tinge di noir e nel quale si intersecano le annose tensioni fra innovazione e tradizione, consuetudine e futuro e, soprattutto, fra le varie interpretazioni della stessa religione, l’Islam.

Questo l’incipit del romanzo di Ahmed al-Qarmalawi:

“Alla luce dell’alba le fiamme erano state nutrite a sufficienza, un’intera notte estiva trascorsa ad ardere legna dei più disparati boschi, noce dell’Ucraina, sesamo indico, ebano, così come aveva bruciato in poche ore l’intera scorta di incenso che sarebbe stata sufficiente alla wikala1 per cinque anni bisestili consecutivi. Nell’area di al-Darb al-Ahmar si sprigionava un odore di legna bruciata misto a tutto quell’incenso
sperperato, finché i fuochi non hanno dato congrua risposta all’insistenza delle mani sudate, concedendo tregua alle gambe sfinite da quel correre per l’intera notte, desiderose solamente di potersi stendere sui letti ad aspettare. I falò avevano ringhiottito le loro lingue, una dietro l’altra, e posto fine alla festa da ballo delle pire, così i demoni, tornati sui loro passi,
hanno lasciato il posto agli uccelli, che non fossero bruciati in quel singolare evento, e alcuni hanno cominciato a levarsi con i loro soliti cinguettii quotidiani, mentre gli pneumatici ruggivano sulla lontana via al-Azhar, quando un carro funebre si è avvicinato alla fatiscente facciata della wikala, il bagagliaio aperto come la bocca di un coccodrillo, e pochi minuti dopo ha inghiottito un corpo mezzo carbonizzato che per ore aveva combattuto la sua ultima silenziosa battaglia prima che le fiamme lo trasformassero in un sacchetto di plastica fuso.


Yusef ha chiuso il portellone con il braccio, rovinando sul marciapiedi cancellato dalle macerie dell’edificio e dagli interventi dei vigili del fuoco. Blocchi di pietra e terra, sabbia bagnata e acqua stagnante. Ha poi preso a seguire con stupore l’autista dalla barba fluente mentre allontanava la gente dalla parte anteriore della macchina, apostrofandola per
poter passare. Nessuno aveva ancora confermato la morte dell’uomo bruciato, tuttavia, avendo trovato un carro funebre risultava pressoché l’unica alternativa sulla quale avrebbero potuto essere tutti d’accordo, dopo aver perso ogni speranza che ci fosse una qualche ambulanza in arrivo.

Quanto al camion dei vigili del fuoco, era arrivato ore prima alla moschea di al-Azhar, ma aveva tardato ad avanzare a causa degli intoppi sulla strada. Dalla sua posizione, fra le rovine, guardava il cielo e le prime luci del giorno che lo stavano colorendo, a spegnere il bagliore del fuoco.
Ha chiuso gli occhi, velati di tristezza e lacrime, tentando di radunare le idee disperse in una diaspora dello sgomento. Riaprendo un attimo gli occhi si è trovato, ritto innanzi a lui, il nemico, il volto calmo sul corpo evi-
denze di una feroce lotta. Non gli importava di quel fisico massacrato, questa volta non si sarebbe lasciato ingannare dall’apparenza, si è avventato su di lui come avesse riacquistato tutte le forze. L’uno contro l’altro, senza emettere il benché minimo suono, tranne che per il rumore dell’impatto dei loro corpi su oggetti solidi, di cui uno o due persino di origine sconosciuta.

Coloro che si trovavano nei pressi della scena li avevano notati e a seguire, espressioni di stupore e disapprovazione sui loro volti. Due sheikh salafiti si sono infilati nel mezzo della tenzone, il fruscio delle loro vesti risuonava come tamburi di guerra. Sono riusciti a separare i due corpi devastati facendoli sedere uno accanto all’altro, sul bordo del marciapiedi annegati in uno stato confusionale.

Uno dei due barbuti ha portato una bottiglia di acqua fredda dalla guardiola in legno, dando loro da bere lì dov’erano seduti i due combattenti.

Sul lato opposto, il custode dell’Università coranica ha allungato la mano su di un tubo dell’acqua, rattoppato in più punti, iniziando a irrorare la terra
in fiamme. Dopo poco si è avvicinata un’automobile nera, l’inserviente ha abbassato la pompa per farle strada facendo un cenno all’autista.
L’auto si è fermata, il finestrino posteriore oscurato si è abbassato rivelando il volto attonito di Rahma, guardava stupita l’ingresso bruciato della liuteria, nero come se la notte non fosse mai trascorsa. Ha lanciato un’occhiata ai due corpi ondivaghi al di là delle macerie della facciata, scesa dall’auto con passo claudicante ha attraversato quella distanza come stesse camminando su di un campo minato.

Si è fermata davanti al capo chino di Yusef, chiedendogli cosa fosse accaduto. Lui ha sollevato su di lei gli occhi velati e con voce rotta ha detto:
«Siediti e saprai tutto».