1980, il terremoto in Irpinia e le mani sulla città

di Giuseppe Manzo
Il terremoto del 1980 non lasciò solo macerie, morti e distruzione. Il sisma cambiò irrimediabilmente la fisionomia di Napoli e dopo 40 anni ne vediamo ancora le conseguenze. Quell’evento aprì le porte a una nuova sperimentazione del governo del territorio e della distribuzione delle risorse.

Negli anni ’90 in poi, esaurita quella fase di ricostruzione partì un’altra fase emergenziale con commissariati straordinari: rifiuti e sanità. Per citare le parole di un uomo forte della protezione civile: “in emergenza non c’è democrazia”. E oggi ne viviamo un’altra, mondiale, che ancora ci consegna solo gli albori di nuove speculazioni.

Le mani nella città

Nel 2013 con il libro inchiesta Le mani nella città ho provato a indagare le conseguenze. I numeri di quel dramma segnarono i ritardi dei soccorsi e la mancanza di una struttura per la grandi calamità: la Protezione Civile nacque proprio con il terremoto del 1980. Le cifre chiariscono l’entità della tragedia:  280.000 sfollati, 8.848 feriti e, secondo le stime più attendibili, 2.914 morti. E poi? Altri numeri, quelli relativi ai soldi spesi: Sessantamila miliardi di vecchie lire. Trenta miliardi di euro. Quasi 60mila alloggi costruiti. Nel libro inchiesta sono stati ripercorsi i bilanci di quel piano di ricostruzione. Le grandi periferie “invase” dai falansteri immaginifici e devastanti come le Vele a Scampia, il Bronx di San Giovani, il Lotto 0 di Ponticelli e tante altre costruzioni che sono diventate hub di emarginazione, di degrado e fortini inespugnabili per i clan.

A distanza di 40 anni questi rioni popolari vivono endemici problemi di vivibilità abitativa e gestione stessa delle assegnazioni alle fasce sociali più deboli. Solo oggi si è riusciti a demolire una parte delle Vele dopo anni di battaglie del Comitato, altre sono in ancora in corso per dare dignità a chi vive quei luoghi frutto di quella ricostruzione. Sullo sfondo c’è un’idea di città metropolitana e piani urbani che non sono riusciti ad avvicinare in una rete di servizi gli spazi edificati e cementificati in un via vai di promesse elettorali.

Emergenza e democrazia

Quali sono le ripercussioni sull’agibilità democratica con il governo delle emergenze? Lo stiamo vivendo con la pandemia a botta di decreti e commissari, task force e chiusure alla vita economica. Non si arriva a questa situazione senza che si siano sperimentate forme di gestione fuori dagli organi legislativi e rappresentativi: basti pensare ai 25 anni di commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti.

Dopo il 23 novembre 1980 l’anno successivo vide in piazza movimenti che chiedevano risposte per la casa e le accuse per chi, al netto del contesto storico in cui si muovevano quelle lotte, erano quelle di essere un “terrorista”. Ecco la testimonianza da Le mani nella città da parte di uno di quei protagonisti: il leader dei disoccupati organizzati Salvatore Amura:

«Dopo l’immediato tempo del terremoto era quello di un’assoluta mancanza di case. Un sistema di graduatorie pubbliche manomesse in continuazione, infatti c’era una situazione clientelare enorme che non si sfuggiva. Con il terremoto arriva una bomba che acuisce l’emergenza. Io abitavo nella zona nord e dopo il sisma giravo in continuazione dove avevano costruito le case popolari per vedere quando occupavano perché era mia intenzione occuparla.

Il giorno dopo il terremoto sono iniziate le occupazioni in maniera spontanea. La gente ha visto queste case ultimate che erano moltissime. Solo a Scampìa erano 1.500 appartamenti e si è iniziato con le occupazioni attraverso il passaparola. Ho notato subito la composizione sociale di chi occupava. Erano generalmente sottoproletari della periferia nord di Napoli.

Poi c’erano anche gruppi che venivano da altre zone e una grossa fetta che veniva dal centro storico. E la dislocazione sociale era pari: sottoproletariato, artigiani che venivano da Napoli, quel magma di persone di condizione umile (lavoratori, manovali). Dopo alcuni giorni è cominciata l’occupazione della Vela gialla, sinonimo dell’organizzazione della lotta. Lì c’erano i compagni e primo embrione di organizzazione e discussione. Il punto forte, oltre alla Vela, erano il comparto S e il comparto H (i sette palazzi, 600 appartamenti), perché erano più numerosi. Lì avevamo organizzato in maniera capillare con i delegati di scala. Attraverso questi passavi le notizie e le proposte. Poi c’era il comparto S con 700 appartamenti. Anche lì un’organizzazione capillare».

Una volta presa la casa bisognava difenderla. Eppure il pericolo reale di uno sgombero non arrivò mai: si sarebbero trovati di fronte a 1.500 persone in strada senza un posto dove dormire. Salvatore continua il racconto: «Nelle Vele c’era il nucleo di compagni con collocazione politica diversa e quello del Cim (Centro iniziativa marxista) che prese la supremazia perché erano bravi nelle assemblee, un po’ meno nell’organizzazione. Questo è il contesto generale nel primo mese successivo al 23 novembre. Ci furono alcuni tentativi di sgombero per assaggiare la nostra forza, ma era chiaro che lo sgombero vero e proprio non ci sarebbe stato perché le famiglie erano tante. Potevi sgombrare 600 famiglie senza avere un’alternativa?».

Oltre ogni retorica della celebrazione, dopo 40 anni è necessario indagare le conseguenze delle calamità naturali in rapporto alle politiche urbani e ambientali del territorio e alle ricadute sulle risposte ai diritti delle persone in quella che è ancora una democrazia parlamentare nel nostro Paese.